Sono sola.
Un minuto prima una voce suggeriva quel percorso.
Ora i miei piedi esitano se continuare, oscillanti verso il buio, all’incontro
di quella figura, o rimanere fermi in quell’angolo di luce, dove riescono a
tenersi arenati malgrado le scarpe alte.
Cammino.
Quella voce mi incoraggia e un tintinnio di
conchiglie al fondo della strada mi rammenta il mare. I ricordi della sabbia
bagnata sotto ai miei piedi scalzi insabbiano il titubare costante e indeciso
dei miei tacchi.
Ora sento l’eco del mare e vado avanti, guidata
nell’oscurità soltanto dal rumore umido e salino di quelle conchiglie, che diventano
il mio faro, la mia luce in quel porto selciato di città collinare.
Penso alle onde, e le scalfitture di sampietrini nei
miei piedi non fanno più male. Il tintinnare delle chiocciole spruzza note
saline nelle mie orecchie. Quel suono argentino, come di campane, innonda
l’aria.
Sono scalza.
Lui è fermo in fondo alla strada. Ha ancora sabbia
nelle scarpe. Gli schizzi marini hanno segnato la sua giacca blu, quella elegante.
Anche sulle guance ci sono dei graffi salati, ma non mi dice che sono lacrime
perché è un cattedratico in brachilogia. La leggerezza di parola entra in
conflitto con la prolissità dei suoi silenzi che mi assordano.
Nella via buia verso l’antica chiesa il suo silenzio
spruzza echi marini e combatte contro il tintinnio delle conchiglie dentro alle
sue tasche.
Ora le campane non tinniscono più. La via che
attraversa il canale è bagnata di gocce di sole. I miei piedi sono sommersi
nella sabbia asciutta. Protetti.
Lontane navigano le conchiglie dentro alle sue
tasche. All’orizzonte, l’ultimo dei velieri tentenna, respinto dalle onde, in
cerca di un mare promesso.
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