martes, diciembre 31, 2013

Pensamientos del anciano navideño

            - ¡Hoy traigo la Navidad a calle Larios!
Y una procesión de almas ignotas, con bolsas de marcas famosas, se confunde entre el aroma cálido de la niebla natalicia.
- Será una noche larga… pero es maravilloso ver la sonrisa de los niños al recibir su paquete.
Y una niebla dulzona oculta Málaga, sus biznagas, e incluso una de las torres de la Catedral.
- Acércate, pequeño, ¡no tengas miedo de mi barba blanca!
Los negocios están cerrando.
Un señor hace una compra de última hora, antes de reunirse a cenar:
- Un cartucho de castañas, por favor.

- ¡Marchando!

domingo, julio 14, 2013

Sindrome di Ulisse


L’oceano. Sorso immenso. Profondo.
Dolci correnti  di Salitudine.
Liquido imprevisto. Mite, iracondo.
Onde salmastre d’ingratitudine.

Profuma, Salitudine marina!
Cospargi quel tuo sale di lamento.
Innaffia con la lacrima salina
il pianto che vorrei in questo tormento.

Le guance, verso il tuo litorale.
Tristi fiumi salati lungo il viso:
Salsedine amara, quanto fai male?

È salinità senza paradiso
l’inferno dolciastro e continentale

d’un pianto marino non condiviso.


Ninna nanna dell’esilio


Silenzio; ha detto silenzio
il padre del mio bambino.
I tratti del clandestino
sul suo viso io presenzio.

Silenzio ho detto silenzio.
Nostro figlio è cittadino
italiano, e il suo destino
è questa patria. Sentenzio.

Silenzio. Il silenzio mente.
Il suo volto è come il nostro,
gli rimpiango amaramente.

Appena prende  il colostro,
silenzio, silenzio gente:

questo figlio è pure il vostro.


Quaranta primavere


Una nota. Ci vediamo fra un anno.
Era arrivato il giorno dell’Addio.
Non c’era più la sua giacca di panno.

La paura di restare nell’oblio
arrivò nella notte delle fughe,
lungo la strada del lieve brusio.

Quel cappello. Grigio. Vecchio di rughe.
Si allontanava senza frenesia
sul molo di scarico delle acciughe.

Quaranta primavere in nostalgia.
Le rughe del cappello più vissute
e la sua giovinezza andata via.

Lettere con delle ciocche canute
e altri pensieri alle persone amate.
E aspettano ancora che hanno salute


all’angolo buio delle immigrate.


domingo, julio 07, 2013


Mi hai fatto l’amore da lontano
tante volte, senza mai dirmi nulla.
E io ti guardavo con la fanciulla
innocenza di chi ti ammira invano.

I tuoi discorsi, meccanici fra un sentimento
platoniano mi facevano amare te:
padrone del tuo insegnamento arcano.

L’amicizia della Grecia antica fra il maestro
e il discepolo non l’abbiamo mai consumata,
benché la bellezza ha sempre vinto l’intelletto.

Vorrei fare voli pindarici, insieme a te
in discorsi infiniti atterrare,
errare per poi riprendere il viaggio
senza una meta diversa dal parlare.

E la profondità del tuo sguardo tace invano
delle mie labbra, del mio collo, del mio sesso.
Continuerai a farmi l’amore da lontano
con il tuo sorriso, che tacerà lo stesso
finché il nostro amore non sarà profano.


viernes, junio 21, 2013

Circvs


Settembre. Torno a casa.

È strano chiamare casa una piccola abitazione in affitto in un paese che non è quello di origine, nel quale sono anonima ai suoi abitanti fino a dove il termine straniera lo permette.

Dovrei dire allora destinazione momentanea? A una persona che gira il mondo senza una meta: Spagna, Irlanda, Italia, è difficile chiedere dove sia la sua casa - non dove abita, o quale sia l’indirizzo dove arrivano le lettere – ma dove si sente a posto, dove non è sola. E allora mi domando: dov’è la mia casa?

Esco dall’aeroporto di Fiumicino e prendo un pullman. Mi accompagna il mio cane. Io, senza bussola né nozioni di astronomia; al contrario di Ulisse  viaggio sempre con il mio Argo, la mia unica ciurma. Io, un’ulisside senza remo, persa in un mare cupo e irritantemente calmo, le vele sempre flosce, guardo dal finestrino le gocce di pioggia che cadono senza pausa.

È finita l’estate. Attraverso le minuscole lenti d’ingrandimento che riempiono il vetro dell’autobus vedo passare macchine, alberi, edifici. Decine e decine di abitazioni. Chissà quante case ci saranno in ognuna di quelle costruzioni?

Stiamo arrivando a Roma. Argo si gira all’improvviso dentro del suo trasportino, mi guarda, come per assicurarsi che io ci sia, poi chiude gli occhi e si addormenta, o forse fa finta di farlo. Giro la testa verso il finestrino e mille scintille liquide riproducono altrettanti immagini, ripetute, come quando si ha molta febbre, come la visione d’un vecchio capitano che torna al suo veliero dopo aver bevuto tutta la notte nella taverna del porto straniero di turno.

Ancora macchine, e alberi, ed edifici.

Chiudo gli occhi e penso a tutte le cose che ho vissuto in questi anni. Le persone che ho conosciuto, quelle che ho salutato forse per sempre. I cuori che ho infranto senza saperlo e quelli che ho dimenticato, ma anche gli amori che, come dei fantasmi, mi perseguiteranno e mi porterò addosso eternamente.

Riapro gli occhi e guardo ancora dal finestrino. Una grande struttura bianca richiama la mia attenzione. È la tenda di un vecchio circo, che si riproduce fino all’infinito nelle gocce inerti di pioggia appoggiate sul vetro. Gocce che ad un certo punto, per effetto dell’aria o della velocità del veicolo, prendono vita e lasciano una scia come se fossero fredde stelle cadenti, e il tendone si vede sfigurato fra il vetro bagnato, quasi cancellato, come fumo bianco che svanisce senza che nessuno se ne accorga o faccia niente per impedirlo. Nemmeno io. Rimango seduta sul sedile dell’autobus e chiudo gli occhi.

Mi addormento. Sogno un’arena. Una folla che grida suoni incomprensibili. Al centro un clown con sorriso triste e una lacrima che scivola sul viso. Non è trucco. È una lacrima vera, e dopo di quella appare un’altra e ancora un’altra, veloci, come stelle cadenti, come piccole gocce di pioggia che riproducono infinitamente quel sorriso triste fino a riempire tutta la maschera, finché la vernice sbiadisce, e ora non è più bianca ma d’un colore grigio come il cielo a settembre.

Argo si è mosso, mi guarda ancora. Lo fa per qualche secondo, ma il sonno vince e si riaddormenta. Guardo dal finestrino e il circo non c’è più. Vedo solo macchine, e alberi, ed edifici. Ora i lampioni sono accesi. Mille scintille di luce riempiono le abitazioni e mi chiedo: quante case ci saranno in ognuna di quelle luci?

Sogno ancora. C’è un clown fermo in una strada. La pioggia bagna il suo viso ormai pulito di trucco, ma un sorriso triste disegna le sue labbra. Non so da quanto è lì fermo, come se aspettasse qualcosa. Passa il tempo e la pioggia lo copre quasi volesse cancellarlo. Da lontano sembra un’ombra bianca sotto un lampione spento, come fumo che svanisce.

Passano le macchine vicino agli alberi, ai palazzi, ma nessuno se ne accorge. Subito un cane si muove sotto ai piedi di quell’ombra effimera, e guarda all’orizzonte. Una macchina viene da lontano, passa vicino agli alberi, alle case. Improvvisamente nelle labbra di quel clown il sorriso diventa luce. Avrà trovato lui la sua casa?
 
 
Foto: Copyright © http://www.allposters.es/

 

Conchiglie nelle tasche

È sera. La luce dei lampioni arriva fino all’orlo della via che attraversa il canale e va verso l’antica chiesa. Da lì in poi si apre una stradina lastricata, poco curata e sinuosa. I miei piedi vacillano sui tacchi a spillo. Cerco un punto di appoggio, una presenza.

Sono sola.

Un minuto prima una voce suggeriva quel percorso. Ora i miei piedi esitano se continuare, oscillanti verso il buio, all’incontro di quella figura, o rimanere fermi in quell’angolo di luce, dove riescono a tenersi arenati malgrado le scarpe alte.

Cammino.

Quella voce mi incoraggia e un tintinnio di conchiglie al fondo della strada mi rammenta il mare. I ricordi della sabbia bagnata sotto ai miei piedi scalzi insabbiano il titubare costante e indeciso dei miei tacchi.

Ora sento l’eco del mare e vado avanti, guidata nell’oscurità soltanto dal rumore umido e salino di quelle conchiglie, che diventano il mio faro, la mia luce in quel porto selciato di città collinare.

Penso alle onde, e le scalfitture di sampietrini nei miei piedi non fanno più male. Il tintinnare delle chiocciole spruzza note saline nelle mie orecchie. Quel suono argentino, come di campane, innonda l’aria.

Sono scalza.

Lui è fermo in fondo alla strada. Ha ancora sabbia nelle scarpe. Gli schizzi marini hanno segnato la sua giacca blu, quella elegante. Anche sulle guance ci sono dei graffi salati, ma non mi dice che sono lacrime perché è un cattedratico in brachilogia. La leggerezza di parola entra in conflitto con la prolissità dei suoi silenzi che mi assordano.

Nella via buia verso l’antica chiesa il suo silenzio spruzza echi marini e combatte contro il tintinnio delle conchiglie dentro alle sue tasche.

Ora le campane non tinniscono più. La via che attraversa il canale è bagnata di gocce di sole. I miei piedi sono sommersi nella sabbia asciutta. Protetti.

Lontane navigano le conchiglie dentro alle sue tasche. All’orizzonte, l’ultimo dei velieri tentenna, respinto dalle onde, in cerca di un mare promesso.

Foglie secche

Gli alberi piangono foglie secche.
Crocchiano sotto ai miei piedi come i biscotti di una colazione in solitario.
Sono una formica senza antenne che cerca disperata la sua casa,
ma le foglie mi coprono pesantemente e non riesco a muovermi.


Ad un tratto il buio.
Quel fluido freddo e vuoto che irrigidisce il mio corpo.
Sento il bisogno di scappare e corro, scalza, ma qui non c’è il mare...
Ci sono solo le foglie morte che crocchiano come i biscotti senza un caffè,
sotto alla nudità dei miei piedi freddi. Poi un dolore antico ferma la mia corsa, e svengo.


Ad un tratto il mare.
La schiuma cura le mie ferite e il corpo si rilassa, si riscalda.
Le onde baciano i miei piedi nudi e mi sento a casa. Protetta. Abbracciata dalle onde.
Ma non si fermano, si allontanano e allora corro, scalza, verso il mare.
Ma lui fugge, ha paura. Non gli appartengo perché anch’io sono lontana,
perché sotto ai miei piedi ci sono solo le foglie secche.


Ad un tratto una voce,
o è un suono?
Forse non è il mare, ma somiglia proprio.


lunes, enero 28, 2013

Pioggia

Piove.
Mille lacrime scintillano
dietro il vetro della finestra.
Tra le tende quasi trasparenti
intravedo una scena
che si ripete ogni momento,
ogni minuto, ogni secondo:
una donna vestita di nero è seduta
sotto una grande quercia.
I capelli grigi
celano gli occhi,
il suo sguardo è vuoto.

Piove.
Guardo ancora dalla finestra.
Non ci sono uccelli.
Nessun canto armonico.
Tutto sembra finito,
devastato.
Vicino all'albero c'è una croce di legno
in cui la scritta d'un nome maschile
lotta contro il passare del tempo.
La pioggia e il freddo ne hanno fatto segno,
come nel viso della donna
che non smette di piangerlo.

Piove ancora.
L'acqua suona un triste motivo, monotono
e continuo, quando colpisce le foglie secche.
Foglie che sotto la quercia giacciono
inermi sull'erba bagnata; accompagnano
il dolce lamento che accarezza
instancabilmente
le labbra della anziana donna
seduta sotto il grande albero,
con il suo vestito nero,
con lo sguardo vuoto. Passano
le ore, i giorni, gli anni...

e sempre piove.
Un nuovo giorno è arrivato
come ogni altro.
Dalla finestra
vedo la grande quercia.
Filtra un filo di sole
timidamente
tra i  rami del vecchio albero
e illumina la croce di legno.
È un mattino particolare,
un uccellino comincia a cinguettare
allegramente.

La donna non c'è più.
Ha smesso di piovere.
E nel cielo
ci sono due persone
che si abbracciano
e volano.