martes, diciembre 31, 2013

Pensamientos del anciano navideño

            - ¡Hoy traigo la Navidad a calle Larios!
Y una procesión de almas ignotas, con bolsas de marcas famosas, se confunde entre el aroma cálido de la niebla natalicia.
- Será una noche larga… pero es maravilloso ver la sonrisa de los niños al recibir su paquete.
Y una niebla dulzona oculta Málaga, sus biznagas, e incluso una de las torres de la Catedral.
- Acércate, pequeño, ¡no tengas miedo de mi barba blanca!
Los negocios están cerrando.
Un señor hace una compra de última hora, antes de reunirse a cenar:
- Un cartucho de castañas, por favor.

- ¡Marchando!

domingo, julio 14, 2013

Sindrome di Ulisse


L’oceano. Sorso immenso. Profondo.
Dolci correnti  di Salitudine.
Liquido imprevisto. Mite, iracondo.
Onde salmastre d’ingratitudine.

Profuma, Salitudine marina!
Cospargi quel tuo sale di lamento.
Innaffia con la lacrima salina
il pianto che vorrei in questo tormento.

Le guance, verso il tuo litorale.
Tristi fiumi salati lungo il viso:
Salsedine amara, quanto fai male?

È salinità senza paradiso
l’inferno dolciastro e continentale

d’un pianto marino non condiviso.


Ninna nanna dell’esilio


Silenzio; ha detto silenzio
il padre del mio bambino.
I tratti del clandestino
sul suo viso io presenzio.

Silenzio ho detto silenzio.
Nostro figlio è cittadino
italiano, e il suo destino
è questa patria. Sentenzio.

Silenzio. Il silenzio mente.
Il suo volto è come il nostro,
gli rimpiango amaramente.

Appena prende  il colostro,
silenzio, silenzio gente:

questo figlio è pure il vostro.


Quaranta primavere


Una nota. Ci vediamo fra un anno.
Era arrivato il giorno dell’Addio.
Non c’era più la sua giacca di panno.

La paura di restare nell’oblio
arrivò nella notte delle fughe,
lungo la strada del lieve brusio.

Quel cappello. Grigio. Vecchio di rughe.
Si allontanava senza frenesia
sul molo di scarico delle acciughe.

Quaranta primavere in nostalgia.
Le rughe del cappello più vissute
e la sua giovinezza andata via.

Lettere con delle ciocche canute
e altri pensieri alle persone amate.
E aspettano ancora che hanno salute


all’angolo buio delle immigrate.


domingo, julio 07, 2013


Mi hai fatto l’amore da lontano
tante volte, senza mai dirmi nulla.
E io ti guardavo con la fanciulla
innocenza di chi ti ammira invano.

I tuoi discorsi, meccanici fra un sentimento
platoniano mi facevano amare te:
padrone del tuo insegnamento arcano.

L’amicizia della Grecia antica fra il maestro
e il discepolo non l’abbiamo mai consumata,
benché la bellezza ha sempre vinto l’intelletto.

Vorrei fare voli pindarici, insieme a te
in discorsi infiniti atterrare,
errare per poi riprendere il viaggio
senza una meta diversa dal parlare.

E la profondità del tuo sguardo tace invano
delle mie labbra, del mio collo, del mio sesso.
Continuerai a farmi l’amore da lontano
con il tuo sorriso, che tacerà lo stesso
finché il nostro amore non sarà profano.


viernes, junio 21, 2013

Circvs


Settembre. Torno a casa.

È strano chiamare casa una piccola abitazione in affitto in un paese che non è quello di origine, nel quale sono anonima ai suoi abitanti fino a dove il termine straniera lo permette.

Dovrei dire allora destinazione momentanea? A una persona che gira il mondo senza una meta: Spagna, Irlanda, Italia, è difficile chiedere dove sia la sua casa - non dove abita, o quale sia l’indirizzo dove arrivano le lettere – ma dove si sente a posto, dove non è sola. E allora mi domando: dov’è la mia casa?

Esco dall’aeroporto di Fiumicino e prendo un pullman. Mi accompagna il mio cane. Io, senza bussola né nozioni di astronomia; al contrario di Ulisse  viaggio sempre con il mio Argo, la mia unica ciurma. Io, un’ulisside senza remo, persa in un mare cupo e irritantemente calmo, le vele sempre flosce, guardo dal finestrino le gocce di pioggia che cadono senza pausa.

È finita l’estate. Attraverso le minuscole lenti d’ingrandimento che riempiono il vetro dell’autobus vedo passare macchine, alberi, edifici. Decine e decine di abitazioni. Chissà quante case ci saranno in ognuna di quelle costruzioni?

Stiamo arrivando a Roma. Argo si gira all’improvviso dentro del suo trasportino, mi guarda, come per assicurarsi che io ci sia, poi chiude gli occhi e si addormenta, o forse fa finta di farlo. Giro la testa verso il finestrino e mille scintille liquide riproducono altrettanti immagini, ripetute, come quando si ha molta febbre, come la visione d’un vecchio capitano che torna al suo veliero dopo aver bevuto tutta la notte nella taverna del porto straniero di turno.

Ancora macchine, e alberi, ed edifici.

Chiudo gli occhi e penso a tutte le cose che ho vissuto in questi anni. Le persone che ho conosciuto, quelle che ho salutato forse per sempre. I cuori che ho infranto senza saperlo e quelli che ho dimenticato, ma anche gli amori che, come dei fantasmi, mi perseguiteranno e mi porterò addosso eternamente.

Riapro gli occhi e guardo ancora dal finestrino. Una grande struttura bianca richiama la mia attenzione. È la tenda di un vecchio circo, che si riproduce fino all’infinito nelle gocce inerti di pioggia appoggiate sul vetro. Gocce che ad un certo punto, per effetto dell’aria o della velocità del veicolo, prendono vita e lasciano una scia come se fossero fredde stelle cadenti, e il tendone si vede sfigurato fra il vetro bagnato, quasi cancellato, come fumo bianco che svanisce senza che nessuno se ne accorga o faccia niente per impedirlo. Nemmeno io. Rimango seduta sul sedile dell’autobus e chiudo gli occhi.

Mi addormento. Sogno un’arena. Una folla che grida suoni incomprensibili. Al centro un clown con sorriso triste e una lacrima che scivola sul viso. Non è trucco. È una lacrima vera, e dopo di quella appare un’altra e ancora un’altra, veloci, come stelle cadenti, come piccole gocce di pioggia che riproducono infinitamente quel sorriso triste fino a riempire tutta la maschera, finché la vernice sbiadisce, e ora non è più bianca ma d’un colore grigio come il cielo a settembre.

Argo si è mosso, mi guarda ancora. Lo fa per qualche secondo, ma il sonno vince e si riaddormenta. Guardo dal finestrino e il circo non c’è più. Vedo solo macchine, e alberi, ed edifici. Ora i lampioni sono accesi. Mille scintille di luce riempiono le abitazioni e mi chiedo: quante case ci saranno in ognuna di quelle luci?

Sogno ancora. C’è un clown fermo in una strada. La pioggia bagna il suo viso ormai pulito di trucco, ma un sorriso triste disegna le sue labbra. Non so da quanto è lì fermo, come se aspettasse qualcosa. Passa il tempo e la pioggia lo copre quasi volesse cancellarlo. Da lontano sembra un’ombra bianca sotto un lampione spento, come fumo che svanisce.

Passano le macchine vicino agli alberi, ai palazzi, ma nessuno se ne accorge. Subito un cane si muove sotto ai piedi di quell’ombra effimera, e guarda all’orizzonte. Una macchina viene da lontano, passa vicino agli alberi, alle case. Improvvisamente nelle labbra di quel clown il sorriso diventa luce. Avrà trovato lui la sua casa?
 
 
Foto: Copyright © http://www.allposters.es/

 

Conchiglie nelle tasche

È sera. La luce dei lampioni arriva fino all’orlo della via che attraversa il canale e va verso l’antica chiesa. Da lì in poi si apre una stradina lastricata, poco curata e sinuosa. I miei piedi vacillano sui tacchi a spillo. Cerco un punto di appoggio, una presenza.

Sono sola.

Un minuto prima una voce suggeriva quel percorso. Ora i miei piedi esitano se continuare, oscillanti verso il buio, all’incontro di quella figura, o rimanere fermi in quell’angolo di luce, dove riescono a tenersi arenati malgrado le scarpe alte.

Cammino.

Quella voce mi incoraggia e un tintinnio di conchiglie al fondo della strada mi rammenta il mare. I ricordi della sabbia bagnata sotto ai miei piedi scalzi insabbiano il titubare costante e indeciso dei miei tacchi.

Ora sento l’eco del mare e vado avanti, guidata nell’oscurità soltanto dal rumore umido e salino di quelle conchiglie, che diventano il mio faro, la mia luce in quel porto selciato di città collinare.

Penso alle onde, e le scalfitture di sampietrini nei miei piedi non fanno più male. Il tintinnare delle chiocciole spruzza note saline nelle mie orecchie. Quel suono argentino, come di campane, innonda l’aria.

Sono scalza.

Lui è fermo in fondo alla strada. Ha ancora sabbia nelle scarpe. Gli schizzi marini hanno segnato la sua giacca blu, quella elegante. Anche sulle guance ci sono dei graffi salati, ma non mi dice che sono lacrime perché è un cattedratico in brachilogia. La leggerezza di parola entra in conflitto con la prolissità dei suoi silenzi che mi assordano.

Nella via buia verso l’antica chiesa il suo silenzio spruzza echi marini e combatte contro il tintinnio delle conchiglie dentro alle sue tasche.

Ora le campane non tinniscono più. La via che attraversa il canale è bagnata di gocce di sole. I miei piedi sono sommersi nella sabbia asciutta. Protetti.

Lontane navigano le conchiglie dentro alle sue tasche. All’orizzonte, l’ultimo dei velieri tentenna, respinto dalle onde, in cerca di un mare promesso.

Foglie secche

Gli alberi piangono foglie secche.
Crocchiano sotto ai miei piedi come i biscotti di una colazione in solitario.
Sono una formica senza antenne che cerca disperata la sua casa,
ma le foglie mi coprono pesantemente e non riesco a muovermi.


Ad un tratto il buio.
Quel fluido freddo e vuoto che irrigidisce il mio corpo.
Sento il bisogno di scappare e corro, scalza, ma qui non c’è il mare...
Ci sono solo le foglie morte che crocchiano come i biscotti senza un caffè,
sotto alla nudità dei miei piedi freddi. Poi un dolore antico ferma la mia corsa, e svengo.


Ad un tratto il mare.
La schiuma cura le mie ferite e il corpo si rilassa, si riscalda.
Le onde baciano i miei piedi nudi e mi sento a casa. Protetta. Abbracciata dalle onde.
Ma non si fermano, si allontanano e allora corro, scalza, verso il mare.
Ma lui fugge, ha paura. Non gli appartengo perché anch’io sono lontana,
perché sotto ai miei piedi ci sono solo le foglie secche.


Ad un tratto una voce,
o è un suono?
Forse non è il mare, ma somiglia proprio.


lunes, enero 28, 2013

Pioggia

Piove.
Mille lacrime scintillano
dietro il vetro della finestra.
Tra le tende quasi trasparenti
intravedo una scena
che si ripete ogni momento,
ogni minuto, ogni secondo:
una donna vestita di nero è seduta
sotto una grande quercia.
I capelli grigi
celano gli occhi,
il suo sguardo è vuoto.

Piove.
Guardo ancora dalla finestra.
Non ci sono uccelli.
Nessun canto armonico.
Tutto sembra finito,
devastato.
Vicino all'albero c'è una croce di legno
in cui la scritta d'un nome maschile
lotta contro il passare del tempo.
La pioggia e il freddo ne hanno fatto segno,
come nel viso della donna
che non smette di piangerlo.

Piove ancora.
L'acqua suona un triste motivo, monotono
e continuo, quando colpisce le foglie secche.
Foglie che sotto la quercia giacciono
inermi sull'erba bagnata; accompagnano
il dolce lamento che accarezza
instancabilmente
le labbra della anziana donna
seduta sotto il grande albero,
con il suo vestito nero,
con lo sguardo vuoto. Passano
le ore, i giorni, gli anni...

e sempre piove.
Un nuovo giorno è arrivato
come ogni altro.
Dalla finestra
vedo la grande quercia.
Filtra un filo di sole
timidamente
tra i  rami del vecchio albero
e illumina la croce di legno.
È un mattino particolare,
un uccellino comincia a cinguettare
allegramente.

La donna non c'è più.
Ha smesso di piovere.
E nel cielo
ci sono due persone
che si abbracciano
e volano.

martes, noviembre 13, 2012

Recuerdo mis caricias a tus versos añejos,
el perfume de tus cartas de amor entre mis dedos.
Mi corazón que palpita por sentimientos ajenos.
Chi nel primo pianto l'aria marina
ha saggiato, sa quanto sono amare
le lagrime scese dalla collina.
Là dove si è lontani dal mare.

domingo, noviembre 06, 2011


L’oceano. Sorso immenso, profondo.
Dolci correnti che vengono e vanno.
Liquido imprevisto, mite, iracondo.
Onde che ritornano ma non stanno.


E soffia sempre la brezza marina.
Va cospargendo il sale di lamento,
innaffiando la lacrima salina.
Non poter piangerla è il mio tormento.


Guance tristi rivolte al litorale.
Due fiumi salati lungo il viso.
Salsedine amara che mi fa male.


Eppure non trova mai il paradiso
in questo inferno assai continentale,
il pianto che non viene condiviso.

miércoles, junio 08, 2011

Silencio

Silencio; he dicho silencio.
El niño llora en su cuna.
La tenue luz de la luna
en su rostro yo presencio.

Silencio ha dicho silencio
su madre mientras lo acuna.
El reloj marca la una,
signos de sueño evidencio.

Silencio. El silencio miente.
Ruiseñor, tus ojos abres
y se cierran lentamente.


Silencio, silencio gente.
Con el canto de su madre
mi niño en su cuna duerme.

sábado, septiembre 18, 2010

Ulivess





Ulivo è il mio nome,
e Ulivo mi chiamano mia madre
e mio padre
e tutti gli altri alberi

miércoles, mayo 26, 2010

Poeta oculto

Naces de un impulso del interior de tu tímida persona para expresar lo que tu boca no se atrevería jamás a decir. Tú, poeta oculto que escribes frases que huelen a hiel. Rimas húmedas, cubiertas del salitre que derraman tus ojos cada noche.

Eras un niño hasta ayer, cuando te confesaste a ti mismo que estabas enamorado.

Tu corazón se sale de tu pecho cuando ella aparece cada mañana por la puerta de la escuela, con el cabello recogido con un elástico rojo, sus libros de texto en una mano y sobre la otra, la mano de Javier…

Poeta de noche y mártir de día. En tus versos hay dolor, hablan del poeta oculto, del poeta enamorado de lo prohibido. Rimas y estrofas saladas del sudor frío que recorre tus sienes y se derrama por tu rostro hasta confundirse con las lágrimas que emanan de tus ojos. Y allí, bajo las sábanas, en la intimidad de tu habitación, das rienda suelta a tu imaginación. Sollozos ocultos bajo los rayos de una luna que te delata, que te descubre desnudo y frágil en la secreta privacidad de las horas oscuras. El sutil algodón de las sábanas te acaricia y te quema en medio de la excitación que te producen tus pensamientos, y te rasga el alma la certeza de un amor imposible.

Y cada noche vuelves a escribir con la luz apagada. Temes que te descubran, tienes miedo de que el poeta oculto sea desenmascarado. Temes que alguien pueda ver tus lágrimas sobre el papel arrugado y desvelar así tu identidad oculta.

La noche es un rincón seguro donde la oscuridad del día se hace clara bajo la luz de la luna. Despiertas de tus pesadillas diurnas para entrar en un sueño efímero, dulce y a la vez amargo en el que todo puede ocurrir. La noche es tu cómplice, compañera de tus fantasías, donde solo los elásticos rojos te aprietan hasta dejarte sin aliento... y desfalleces.

Amanece otra vez y en la última página del periódico del colegio aparece, como cada viernes, un nuevo lamento de un poeta oculto:


Malos sueños tras elásticos rojos
Como la sangre que nutre mis venas.
Sangre amarga que me hierve y me quema
Cuando tus iris reflejan sus ojos.

Al acabar la noche, la hora oscura,
Despierto de todas mis pesadillas.
Siempre al alba, llorando y de rodillas,
pido a Dios despertar de mi locura.

Muere el día, la hora oscura aparece.
Mi corazón agoniza, se agota,
¡Una vez más en la noche enloquece!

Un nuevo poema comienzo a exponer
Y bajo la luna escribo tu nombre
Te amo, te amo, mi dulce Javier.

viernes, enero 15, 2010

L'Uomoliva nel Paradiso dantesco







ergine olio, oliva del tuo ulivo,


verde olivastra più che spremuta,

termine culinario d'etterno additivo,


tu se' colei che la verde natura

innalzasti sì, che'l tuo fattore

non disdegnò di farsi tua bacchiatura.


Nel nocciolo tuo si raccese il bocciolo,

per lo cui sterile nell'eterno acre

così è germinato un ulivo solo.

miércoles, diciembre 23, 2009

OLIVETO



Condire o non condire,

questo è il dilemma:

se sia più nobile per il palato

sopportare gli ortaggi,

i lessi e i cardi dell'iniqua dispensa

o prendere salse

verso un mare di intingoli

e conditi mangiarli.

miércoles, diciembre 16, 2009

ROMOLIO E GIOLIVETTA



“Che significa Uomoliva?

Nulla: non una foglia,

non una radice, non un rametto,

non la chioma, né un’altra parte qualunque

del tronco d’un albero.

Che cosa c’è in un nome?

Ciò che noi conosciamo con il nome di olio,

anche se lo conoscessimo con un’altro nome,

serberebbe pur sempre lo stesso intenso sapore.”

miércoles, diciembre 09, 2009

NADIE DIJO QUE FUERA FÁCIL

Ayer me mandaron un e-mail con este artículo de Arturo Pérez-Reverte. Hoy cumplo los 30, e indirectamente el texto es como un regalo que me ofrece uno de mis escritores actuales preferidos.


NADIE DIJO QUE FUERA FÁCIL

Todo el mérito es tuyo; tienes mi palabra de honor. Quizá el botín de tan larga campaña –y lo que te queda todavía– no sea lo dorado y brillante que uno espera cuando la inicia, a los doce o trece años, con los ojos fascinados de quien se dispone a la aventura. Pero es un botín, es tuyo, es lo que hay, y es, te lo aseguro, mucho más de lo que la mayor parte de quienes te rodean obtendrán en su miserable y satisfecha vida. Tú has abordado naves más allá de Orión, recuerda. Tienes la mirada de los cien metros, esa que siempre te hará diferente hasta el final. Fuiste, vas, irás, esos cien metros más lejos que los otros; y durante la carrera, hasta que suene el disparo que le ponga fin, habrás sido tú y habrás sido libre, en vez de quedarte de rodillas, cómoda y estúpida, aguardando.

Ahora sabes que todo merece la pena. La larga travesía por ese mundo de méritos numéricos y ausencia de reconocimiento, donde te viste obligada a arrastrar contigo al niño de papá, al tonto del haba, al inútil carne de matadero, con tal de llevar a buen término el trabajo para el que te bastabas en solitario. Has crecido y sabes que las oportunidades no estaban en los otros, sino en ti. Que no había nada malo en aquella chica tímida que se llevaba libros a las horas libres de tutoría; que buscaba la mirada de los profesores inteligentes, no para hacerles la pelota, sino por sentirse cómplice y no estar sola. La jovencita que sobrecargaba la mochila con El guardián entre el centeno o El señor de los anillos, que en la excursión del cole a Madrid prefería ver el Planetario, el Prado o el Reina Sofía a dejarse la garganta en el parque de atracciones. Que se enfrentaba a la hostilidad de compañeros cretinos porque era la única que había leído las Sonatas de Valle-Inclán o sabía quién era Wilkie Collins. Ahora que miras hacia atrás con madurez, comprendes que cada vez que alguien ninguneó tu forma de ser, te insultó, te miró por encima del hombro, no hizo sino precipitar tu aprendizaje y tu lucidez. Tu certeza de ser mejor, más despierta y diferente.

Mírate ahora. Qué lejos estás de tanto borrego y tanto buey. Entras en la edad adulta sin que nadie pueda imponerte una sonrisa falsa cuando el mundo y su estupidez, su envidia, su mezquindad, te hagan fruncir el ceño. Ahora tienes la certeza de que no te equivocaste, y de que la niña callada en el banco del fondo puede ser vengada por la mujer que hoy la recuerda. Sabes ya que puedes ser feliz a tu manera y no a la de otros, con tus libros, con tus películas, con tu familia, con esos amigos que no sabes cuánto tiempo van a durar y por eso aprecias tanto, con la mirada serena que ahora posas a tu alrededor, en la calle, en el trabajo, en la vida. En la muerte. Ahora sabes que la virtud, en el más hondo sentido de la palabra, está en ese aguante de tantos años, cuando cerca estuvieron de convertirte en otra. Comprendes al fin que los malos profesores son un accidente sin demasiada importancia, pues eres tú quien aprende; y la vida, incluso con sus insultos, con sus malvados, con sus tragedias, con sus reglas implacables, la que te enseña. Nadie dijo que fuera fácil.

El otro día fuiste a ver Salvador y saliste del cine asombrada, llorando. No por la película, ni por la suerte del protagonista, sino por la certeza de que los ideales de aquel muchacho ya no tienen sentido, porque ninguno los sustituye ahora, porque la gente de tu edad se divide en dos grandes grupos: una minoría de analfabetos desorientados, pasto de demagogia barata en manos de políticos sin escrúpulos, y una masa inerte cuya única aspiración es salir en Gran Hermano o ponerse hasta arriba el sábado por la noche; jóvenes con garganta y sin nada que gritar, que se irían por la pata abajo puestos en la piel de Salvador Puig Antich, o a los que, viendo El crimen de Cuenca, la sola visión del garrote vil haría cerrar los ojos con escalofríos en la nuca. Pero tus lágrimas, amiga, demuestran que tienes razón. Que no te equivocaste al amar al conde de Montecristo y al Gabriel Araceli de Galdós, al buscar el secreto genial de un soneto de Borges o Quevedo, al transitar, jugándotela, por los senderos sin carteles luminosos en los pasillos oscuros de la Historia. Al hacer de cada esfuerzo, de cada miedo, de cada desengaño, de cada ilusión y de cada libro, un martillo con el que picar los muros espesos que te rodean.

Y si algún día tienes hijos, intenta que sean como tú. Como esos tipos flacos de los que hablaba Julio César, a la manera de Casio: gente de dormir inquieto, peligrosa y viva. La que quita el sueño a los apoltronados y a los imbéciles.

El Semanal 21 de enero de 2007

viernes, diciembre 04, 2009

L'Uomoliva



L’Uomoliva fu concepito a Peschici


il sedici Agosto dell’anno duemila sette.


Nacque a dublino


durante i seguenti mesi di autunno.




jueves, septiembre 10, 2009

Amargura

Todo estaba igual. Nada había cambiado en diez años. Macarena salió de la estación de trenes y se encontró inmersa en la atmósfera de una ciudad tan familiar, con sus inolvidables ruidos y olores, que le provocó un pellizco en el estómago el no sentirla ya suya. ¿Por qué había esperado tanto para volver?

Se dirigió lentamente, pensativa, hacia el taxi con la luz roja que la esperaba frente al ingreso principal de la “Estación del Norte”.

Era una tarde gris de otoño. El viento hacía mover los cabellos y las gotas de lluvia que golpeaban el rostro de Macarena y que sentía como lágrimas amargas, las que no había derramado cuando recibió la breve llamada telefónica que la había conducido hasta aquella ciudad tan lejana, apartada en algún lugar de su mente, tan olvidada.

El número de teléfono y la dirección de la casa a la cual se había mudado César corrían en ríos de tinta azul en el trozo de servilleta de una cafetería del centro. Él se lo había escrito diez años antes, incrédulo, impotente, cuando acudió a la cita con Macarena para saber que ella se iba de la ciudad, que abandonaba todo aquello. Y que no la buscara, que rehiciera su vida. Que la olvidara. Y él insistió en que se llevara consigo el trozo de papel con su nueva dirección, que ya había encontrado una nueva casa, que sería realmente duro vivir sin ella. En esa cafetería se despidieron por última vez sin que ninguno de los dos supiera que sería para siempre.

El taxi llegó a su destino. Aún llovía. Macarena se quedó algunos segundos en el automóvil después de haber pagado la carrera, sus ojos fijos en aquel trozo de servilleta vieja y oscurecida por los años. El tiempo y la lluvia habían borrado algunos números pero… ¿qué importaba ya? Era tarde para hablar con el propietario de aquel número de teléfono. Demasiado tarde. Ya no estaba. César había desaparecido para siempre y ahora se encontraba quién sabe dónde. ¿Existiría un cielo para él? ¿O quizás su alma se había perdido en la nada para siempre?

Macarena bajó del taxi y se encaminó hacia la casa amarilla con ventanas de madera mal barnizada dispuesta al final de la calle, cerca de un cruce. La puerta estaba abierta y decenas de desconocidos llenaban la entrada, la sala, la cocina. Una masa de vestidos negros y rostros serios y algunas lágrimas daban la bienvenida a los que iban llegando. Pilar, la mejor amiga de César se apresuró hacia Macarena y con tono seco y amenazante le censuró:

- ¿Qué haces aquí? ¿No has hecho sufrir bastante a la gente; al pobre César? Desde que lo abandonaste para vivir tu loca aventura de recorrer el mundo, él no volvió a ser el mismo, cada día parecía más triste y enfermo. Intenté animarlo, lo sacaba a pasear, al cine, a cenar, incluso le presenté a una chica muy simpática y atractiva con la cual consiguió salir durante dos años, pero al final la dejó porque no la amaba, porque su mente estaba lejos, en otro país a miles de kilómetros; buscándote. ¿No crees que ya has hecho suficiente daño?-

Macarena no sabía qué decir y respondió con un profundo y amargo “lo siento”. Nunca quiso hacer daño a César pero habría sido una hipócrita seguir estando junto a él si para ella, la historia, hacía tiempo que había terminado.

Con un movimiento de cabeza Pilar indicó a Macarena dónde se encontraba el féretro y tan sólo dijo:

- Su cara está desfigurada por el impacto. Tienes sólo cinco minutos, después desaparece de aquí como lo hiciste hace diez años.-

Se quedó en la casa el tiempo necesario para dar el último adiós a César; sordo y ciego, frío e inerte… muerto. Se acercó a su rostro y permaneció así, inmóvil, con la mirada fija como en el taxi después de haber pagado la carrera. César también parecía viejo y amarillo. En su piel, los hematomas recorrían su rostro y borraban sus facciones del mismo modo que la lluvia cancelaba los trazos de tinta azul transportándola a lo largo de la servilleta de papel de aquella cafetería del centro que los vio decirse adiós por última vez. Pero, ¿ya qué importaba? Era tarde y ella tenía que marcharse.

Las luces de la ciudad se iban haciendo más débiles y lejanas. Observándolas desde la ventanilla del tren, a Macarena la embargó un sentimiento de profunda amargura.