Settembre. Torno a casa.
È strano chiamare casa una
piccola abitazione in affitto in un paese che non è quello di origine, nel
quale sono anonima ai suoi abitanti fino a dove il termine straniera lo permette.
Dovrei dire allora destinazione momentanea? A una persona che gira il mondo
senza una meta: Spagna, Irlanda, Italia, è difficile chiedere dove sia la sua
casa - non dove abita, o quale sia l’indirizzo dove arrivano le lettere – ma
dove si sente a posto, dove non è sola. E allora mi domando: dov’è la mia
casa?
Esco dall’aeroporto di Fiumicino
e prendo un pullman. Mi accompagna il mio cane. Io, senza bussola né nozioni di
astronomia; al contrario di Ulisse viaggio sempre con il mio Argo, la mia unica ciurma. Io, un’ulisside senza remo, persa in un
mare cupo e irritantemente calmo, le vele sempre flosce, guardo dal finestrino le
gocce di pioggia che cadono senza pausa.
È finita l’estate. Attraverso le
minuscole lenti d’ingrandimento che riempiono il vetro dell’autobus vedo
passare macchine, alberi, edifici. Decine e decine di abitazioni. Chissà quante
case ci saranno in ognuna di quelle costruzioni?
Stiamo arrivando a Roma. Argo si gira all’improvviso dentro del
suo trasportino, mi guarda, come per assicurarsi che io ci sia, poi chiude gli
occhi e si addormenta, o forse fa finta di farlo. Giro la testa verso il
finestrino e mille scintille liquide riproducono altrettanti immagini,
ripetute, come quando si ha molta febbre, come la visione d’un vecchio capitano
che torna al suo veliero dopo aver bevuto tutta la notte nella taverna del
porto straniero di turno.
Ancora macchine, e alberi, ed
edifici.
Chiudo gli occhi e penso a tutte
le cose che ho vissuto in questi anni. Le persone che ho conosciuto, quelle che
ho salutato forse per sempre. I cuori che ho infranto senza saperlo e quelli
che ho dimenticato, ma anche gli amori che, come dei fantasmi, mi perseguiteranno
e mi porterò addosso eternamente.
Riapro gli occhi e guardo ancora
dal finestrino. Una grande struttura bianca richiama la mia attenzione. È la
tenda di un vecchio circo, che si riproduce fino all’infinito nelle gocce
inerti di pioggia appoggiate sul vetro. Gocce che ad un certo punto, per
effetto dell’aria o della velocità del veicolo, prendono vita e lasciano una
scia come se fossero fredde stelle cadenti, e il tendone si vede sfigurato fra
il vetro bagnato, quasi cancellato, come fumo bianco che svanisce senza che
nessuno se ne accorga o faccia niente per impedirlo. Nemmeno io. Rimango seduta
sul sedile dell’autobus e chiudo gli occhi.
Mi addormento. Sogno un’arena.
Una folla che grida suoni incomprensibili. Al centro un clown con sorriso
triste e una lacrima che scivola sul viso. Non è trucco. È una lacrima vera, e
dopo di quella appare un’altra e ancora un’altra, veloci, come stelle cadenti,
come piccole gocce di pioggia che riproducono infinitamente quel sorriso triste
fino a riempire tutta la maschera, finché la vernice sbiadisce, e ora non è più
bianca ma d’un colore grigio come il cielo a settembre.
Argo si è mosso, mi guarda ancora. Lo fa per qualche secondo, ma il
sonno vince e si riaddormenta. Guardo dal finestrino e il circo non c’è più.
Vedo solo macchine, e alberi, ed edifici. Ora i lampioni sono accesi. Mille scintille
di luce riempiono le abitazioni e mi chiedo: quante case ci saranno in ognuna
di quelle luci?
Sogno ancora. C’è un clown fermo
in una strada. La pioggia bagna il suo viso ormai pulito di trucco, ma un
sorriso triste disegna le sue labbra. Non so da quanto è lì fermo, come se
aspettasse qualcosa. Passa il tempo e la pioggia lo copre quasi volesse
cancellarlo. Da lontano sembra un’ombra bianca sotto un lampione spento, come
fumo che svanisce.
Passano le macchine vicino agli alberi, ai palazzi, ma nessuno se ne
accorge. Subito un cane si muove sotto ai piedi di quell’ombra effimera, e
guarda all’orizzonte. Una macchina viene da lontano, passa vicino agli alberi,
alle case. Improvvisamente nelle labbra di quel clown il sorriso diventa luce. Avrà
trovato lui la sua casa?
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